Io bianca, tu negro…
Quando vivevo in Mozambico ed ero l’unica “branca” al mercato di Nampula la gente mi chiamava proprio così, veniva d’affetto e da un ammiccante savoir faire di commerciante di rione: “Ehi, branquinha, vem aqui ver”. Era il modo più immediato per invitarmi a valutare la merce, mi si distingueva facilmente e altrettanto facilmente si destava la mia attenzione, e non aveva niente di sconveniente.
Qualcosa di sconveniente però l’ho trovato quando un cugino di mio marito – mozambicano, ve lo dico subito – mi ha salutata con un “Ohi, querida mulher de homem negro!”. Mi ha infastidita. Io, cara moglie di un negro. Dentro di me ho pensato… ma come, facciamo tanti sforzi per evitare che nel linguaggio comune nessuno vi chiami più “negri” e poi siete voi i primi a farlo, e per giunta parlando di voi stessi? Queste però sono cose che si imparano, viaggiando, vivendo, confrontandosi. Negro in portoghese è la “parola buona” per chiamare quella pelle scura, la parola che parla di persone. Perché se li chiami “pretos”, neri, non sono persone, sono colori e non va bene, è un’offesa. Un’offesa come altre che ti cadono addosso come schegge impazzite quando vivi da queste parti e dopo anni e anni di campagne contro il razzismo ti accorgi che serpeggia silenzioso un certo “non so che” che rende molti di noi scomodi, impacciati e innaturali nel parlare di e con persone che hanno la pelle significativamente più scura della loro. “Sai, ti ho visto in città l’altro giorno… o almeno credo fossi tu, ti ho chiamato per salutarti ma non ti sei girato! O forse non eri tu, era qualcun altro, ma siete tutti uguali!”. Eh sì, c’è chi dice proprio frasi di questo tipo, fidatevi, e le dice con l’intento di essere cordiale e simpatico – in fondo ti ha chiamato per salutarti no? – senza nemmeno rendersi conto che ti sta ancora una volta privando di una parte di te che tante battaglie hanno cercato di restituirti. E poi c’è chi ci mette il carico: “Eh sì, i bambini africani sono molto più belli e più bravi dei nostri”. Già. Ci sono persone che si riferiscono ai neri così, dicendo che sei “come qualcun altro” per evitare di dire che sei nero; persone che devono trovare un lato “migliore” come riscatto al tuo essere diverso. Ma come sei tu? Alto come qualcun altro? Hai la stessa corporatura? Hai lo stesso modo di muoverti, di parlare? O hai semplicemente – e banalmente – lo stesso colore?!?… E quale colore poi? Nero? Mio marito quando scherzando parlavamo dei nostri colori se né uscito con un “che se poi volessimo essere precisi, io sono marrone, marrone scuro, mica nero”, che è diverso dal marrone ancora più scuro o più chiaro di altre zone dell’Africa… di colore insomma… di tanti colori…
Il nostro è un matrimonio misto. Per noi è un matrimonio, ma per la maggior parte delle persone è misto, dal latino miscere, mischiare. Nelle relazioni di coppia normalmente si mischia poco vero? In quelle come le nostre invece è così lampante…Noi siamo una di quelle coppie da mettere in prima fila ai convegni, che “fanno colore” nei servizi del telegiornale, la cui vita privata è un po’ meno privata di quella di altri perché capita che ti tirino in ballo di punto in bianco anche quando non è necessario, magari durante una riunione di lavoro, per “raccontare la vostra esperienza”, perché “la vostra storia è un esempio”… Un esempio di cosa scusate? Di momenti felici e momenti bui, di precariato, disoccupazione e ricordi intensi, di incomprensioni e di risate? No. E’ un esempio di integrazione.
No grazie, noi non lo vogliamo essere questo esempio. Siamo un po’ stufi a dire il vero di essere sotto i riflettori come fenomeni da baraccone, come se fossimo diversi da altri. Perché scusate, voi per quale motivo state bene con i vostri partner? Perché vi fidate, vi divertite, progettate cose insieme e quando le realizzate vengono bene? Per quali motivi state male? Perché avete problemi economici, perché non concordate sull’educazione dei figli, perché è finito l’amore? O per mille altre ragioni? Ecco, sono ragioni tutte vostre, a volte comuni a quelle di altri, probabilmente molto simili alle nostre.
Il fatto è che essere “marrone scuro” non è sempre facile nelle nostre società “evolute” (…). Anche quando il colore nessuno lo nomina… conta ancora, eccome. E a volte sembra quasi più difficile “per gli altri”, perché non sanno più come chiamarti e per stare attenti alle parole creano neologismi che se non ci fossero tutti i retaggi culturali di cui siamo artefici e vittime, si ridurrebbero semplicemente a commenti esilaranti. “Un po’ scuretto” l’ha definito qualcuno una volta, per la paura di chiamarlo per nome, perl’urgenza di dargli una sfumatura cromatica.
Perché è così incompleto chiamarti solo per nome. Se non c’è una specifica sulla provenienza e la nazionalità c’è qualcosa che manca. Intendiamoci, a volte sono necessarie le specifiche, come lo sono i titoli di studio o le professioni o altri particolari che aiutano a contestualizzarci a seconda delle situazioni, lungi da me dire che per non definire e non rilevare differenze bisogna farsi tutti magma indistinto. Le differenze ci rendono unici, complementari, interessanti, ci plasmano l’identità, e a queste noi ci aggrappiamo per coltivare la nostra personalità, per far fiorire ciò che ci fa sentire noi e non qualcun altro. Quello che fa riflettere è la sensazione di dover specificare anche quando l’informazione è superflua, anzi, offre spunti per vignette comiche.
Fateci caso, e non perché magari siete particolarmente attenti alle modalità con cui i media si occupano di immigrazione, non perché leggete articoli in cui si parla di “nigeriani mafiosi, rumeni ladri o marocchini stupratori”. Quello ormai, almeno apertamente, lo fanno in pochi grazie al cielo, e quei pochi sono i residuati bellici di una società rozza che ha speso miliardi di parole (a volte illuminate, a volte purtroppo vane) per ragionare sull’argomento. Risultato: evidenziare quanto stereotipi senza fondamento contribuiscano a peggiorare la sensazione di coesione sociale e di sicurezza che percepiamo dal vivere nelle nostre comunità. Ma pensate a noi, a quante volte, in buona fede non lo metto in dubbio, nelle nostre vite di tutti i giorni, specifichiamo dettagli totalmente irrilevanti ai fini di ciò che vogliamo comunicare. Quante volte lo facciamo? A che scopo?
Quando il direttore mi ha chiesto se mi facesse piacere scrivere qualcosa sulla mia “esperienza personale” ho detto subito di no, che non me la sentivo. Basta essere unter die Lupe, sotto la lente d’ingrandimento. Andiamo avanti a riflettori spenti, ci piace di più.
Poi però ci ho pensato. Ho pensato alle sfide che molti di noi ogni giorno affrontano per difendere la loro diversità come condizione per rimanere autenticamente umani; ho pensato agli incontri speciali che facciamo e grazie ai quali impariamo e miglioriamo; ho pensato che forse stavo sprecando l’opportunità che mi veniva offerta di poter fare qualche considerazione finalmente personale. Attiva. Un’occasione per non essere ancora una volta chiamati in causa per essere protagonisti passivi delle vanterie degli altri, delle buone prassi sui matrimoni misti, delle innumerevoli vie verso l’integrazione, l’intercultura, la multicultura, la convivenza, la globalità, il metissage, la mescolanza, l’inclusione. Senza polemiche, ben inteso. Il più delle volte questo tipo di coinvolgimento nasce da buona fede, curiosità autentica, desiderio di conoscenza, impegno. Sarà l’esasperazione che negli ultimi tempi la fa un po’ da padrona su queste questioni ma… basta, per favore. Parliamo da anni di integrazione e ancora ci ritroviamo a generalizzare da un lato, a essere superficiali dall’altro e a impigliarci su parole che svisceriamo fino a spogliarle, tanto da non poterle più usare perché ora risultano sconvenienti (extracomunitario una su tutte). E poi? Poi abbiamo amici, parenti, conoscenti, colleghi, vicini di casa di tutti i colori del mondo, con i quali ci scambiamo dolci e consigli, libri e litigate, vestiti e fotografie, al di là dell’imbarazzo con cui ci ostiniamo ancora a volerci “definire”. Vivere al di là delle parole a volte fa bene, anche per brevi periodi. Disintossicarsi dalle definizioni e dalle categorie aiuta, e a dirlo è una persona che si è formata in filosofia e di categorie ne ha sentite.
Questo articolo lo concludo allora con un grazie, un grazie che va a chi, sensibile alle differenze, ha scelto di mettersi in gioco in prima persona e con la propria vita, nelle piccole e grandi attività e riflessioni di ogni giorno. Mi auguro sia chiaro che questo intervento non vuole entrare nel merito delle complesse e intricate scelte politiche e personali che riguardano un mondo che, con o senza la nostra approvazione, si è da tempo avviato ad avere confini diversi da quelli che gli abbiamo disegnato. E’ un punto di vista, e precisamente il mio, che spera di suscitare un pensiero intorno alle mille declinazioni di un rapporto di coppia come tanti in cui,casualmente, due persone hanno qualche differenza più evidente di altre. Differenze che si risolvono in mille sfumature di grigio. O di marrone, come direbbe qualcuno.